Posts Tagged ‘rap’

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Uniti contro la crisi/2: abbiamo l’inno!

12 febbraio 2011

Siete giovani, precari e arrabbiati? Protestate contro la crisi economica causata dalle bbanche, cioè, ci rubbano il futuro noi blocchiamo la città?

Siete in cerca di un inno di battaglia, qualcosa che esprima la rivolta generazionale? E lo sapete che per ora ancora manca, ne abbiamo scritto qui.

Allora ecco quello che fa per voi, “Il senso del risparmio” del più misconosciuto tra i rapper degli anni ’80-’90, Gregorio! Finalmente la generazione che vive la crisi economica si potrà riconoscere in versi come

Si sente dire in giro che il paese è in grande crisi,

ma intanto siamo bravi nel pagare coi sorrisi,

la crisi purtroppo c’è, si vive, è evidente,

ma siamo sempre noi a pagar le conseguenze, STOP!

La soluzione prospettata è dunque il ritorno a un sano senso del risparmio:

ci vuole il senso del risparmio o ci romperanno il culo

in cui in nuce possiamo intravvedere un invito alla sobrietà degli stili di vita, al km0 e allo STOP (…) al consumo di territorio. O forse no. Chissenefrega, lui è così deliziosamente anni ’80 con quel maglioncino con cui appariva sulla copertina dell’LP “Insieme a noi”, il sopracciglione alla Elio e il rap de noantri alla Jovanotti. Vedevatelo!

Ha anche un Maispeis! Andavateci! Fonte dell’articolo qui.

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Qualcosa in serbo

15 ottobre 2010

Dunque, i fatti di questi giorni seguiti alla partita (poi sospesa) Italia-Serbia a Genova sono noti.

Considerazioni ovvie: la questione è semplice; negli stadi, prima di far entrare, non si controlla tutti come si dovrebbe -tutte le domeniche in serie A, figurarsi se gioca la Nazionale. è una sorta di patto non scritto per cui alle società e alla polizia non conviene farsi troppo nemiche le tifoserie e la cui controparte consisterebbe (talora) nel non fare troppo casino.

Slavi o non slavi non c’entra, il punto è come facciano certi oggetti a entrare allo stadio. La militarizzazione del calcio e degli stadi è discutibile assai (ne parlammo qui), ma qui c’era in mezzo una scommessa: data la premessa per cui controllare tutti nel dettaglio in Italia non usa (e questo lo sanno anche i serbi), una tifoseria violenta farà più macello a farla entrare o a lasciarla fuori? Ad esempio, voi cos’avreste scelto?

[Vignetta di Makkox a proposito]

Quel che noi si voleva segnalare è la nascita di una spassosa pagina Facebook del capoultrà serbo Ivan Bogdanov. L’intento è ovviamente il LULZ generalizzato, ma questo sembra del tutto sfuggire alla maggioranza dei giornalisti italiani, castigati a dovere dal blog ilNichilista.

Non dimentichiamoci però che dietro a tutto questo macello ci sono serie ragioni politiche, legate a quel casino che sono i Balcani da quando abbiamo deciso che era ok che gli stati fossero monoetnici, monoreligiosi o monolinguistici. A bombardare Belgrado c’eravamo pure noi, e ancora siamo in Kosovo. Ma siccome fin quando non verranno l’anarchia e il comunismo, i nazionalismi hanno ancora qualcosa da dire sui popoli; e siccome non siamo in grado di fare discorsi seri, la buttiamo in musica.

Ecco il frutto più maturo del rap serbo: dalla BvC crew, una canzone intitolata ‘il Kosovo è Serbia’, di cui abbiamo scelto appositamente il video più cruento, aggressivo e violento tra quelli caricati sul Tubo. Tanto per capire quanta roba c’è dietro se si va a scoperchiare. Una traduzione inglese è qui.

 

Per par condicio e poiché l’intento del post è sociologico, riceviamo e volentieri pubblichiamo quello che è una specie di inno ufficioso dei giovani albanesi (e kosovari). P.S.: ogni tanto nella canzoncina sentirete qualcosa tipo shit: beh, non è “merda” ma è shqip (aquila). Ebbene sì, gli albanesi tra di loro, e solo loro sono autorizzati a farlo, si chiamano aquilotti. Chiedere al dottor Martini Michele, esperto di torture, canniblaismi, morti violente accidentali e non, per eventuali conferme. Parole qui.

 

Si ringrazia Gabriele Zobele per la consulenza tecnico-scientifica.

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Buon compleanno hip-hop/1

11 agosto 2010

So bene che la maggior parte della redazione ascolta solo post-punk; o indie; o Capossela (anzi, “Vinicio”); o musica balcanica, oppure ancora gruppi sconosciuti categorizzate sotto generi con nomi che non capisco, però ci proviamo lo stesso.

Non sono molti i generi musicali di cui si possano rintracciare esattamente la data e il luogo di nascita: convenzionalmente, l’hip-hop è uno di questi.

11 agosto 1973, New York City, 1520 Sedgwick Avenue, così narrano le cronache di chi c’era e che negli anni successivi da quella stanza fece tanta strada.

Prima, un po’ di storia: siamo nel Bronx, quartiere abitato in gran parte da afroamer… eh? No, scherzavo, volevo dire neri. Neri perché non si capirebbe niente dell’hip hop delle origini senza collegarlo al movimento di consapevolezza nera degli anni ’60 e ’70 (mica finì tutto con MLK, eh!), al degrado delle periferie cui la polizia rispondeva con la militarizzazione e gli arresti, soprattutto il disagio di un’intera generazione di giovani cresciuti in strada, tra le droghe, la microcriminalità e la rabbia della mancanza di prospettive di ascesa sociale.

Quali erano le forme di aggregazione dei ragazzi adolescenti o poco più? Intanto, il tagging, scrivere il proprio nome sui muri per marcare un territorio; per arrivare a quello che chiamiamo più propriamente il writing (con bombolette e tutto quanto), si passa da quella che fu semplicemente una gara a chi aveva il nome più fantasioso, scritto col pennarello più fico e poi più eleaborato. Le bande di strada, perché quello era il luogo in cui bene o male si cresceva veramente, si socializzava e si ‘facava gruppo’ -un argine di rispetto e persino solidarietà. Poi, guarda caso, la musica blues e il funky, da ballarsi nelle feste organizzate in casa di questo o quell’amico. Lì nascono modi di fare come quello del mettere una base su un disco e continuare a  metterla in loop; quello di qualcuno che ‘tenga su’ la festa e dal microfono richiami la gente; soprattutto, un tipo di ballo basato su pochi passi e molto energico che sarebbe stato poi conosciuto come break – dance.

Torniamo a noi; l’11 agosto 1973, in una di queste feste, il diciottenne Clive Campbell, noto sotto lo pseudonimo di DJ Kool Herc, fa la sua prima ‘apparizione pubblica’ dopo aver creato tra i ragazzi del quartiere un clima di suspence per aver scritto il suo nome per mesi sui muri del Bronx. DJ Kool Herc sarà il dj della serata, e gli viene l’idea di utilizzare due dischi con l’intro di alcune canzoni funky, come “Meltin Pot” dei Booker T, e soprattutto “Give it up or turn a loose” di James Brown, che è questa qui -in un’esibizione del vivo a Bologna, già che ci siamo.

Il pezzo solo di beat in loop che gira su due dischi, lo stile rap, improvvisati MC lui e qualche amico; ma gli amici erano gente del calibro di Afrika Bambaataa. Citiamo dalla wikipedia italiana:

Ispirato da DJ Kool Herc and Kool DJ Dee, iniziò anch’egli ad ospitare delle feste hip-hop. Promise a se stesso di utilizzare l’hip-hop per strappare i ragazzi dalle gangs e formò la Universal Zulu Nation. Bambaataa è accreditato per avere esteso e valorizzato il significato di hip-hop. “Hip-Hop” era un termine comunemente utilizzato dagli MCs come parte di uno stile ritmato di ispirazione scat e Bambaataa se ne appropriò per descrivere una cultura emergente, che includeva quattro elementi: la musica dei DJs, il liricismo e la poesia degli MCs, il ballo dei cosiddetti b-boys e b-girls, e la “graffiti art”.

Separatamente, erano tutte cose che già si facevano, nel Bronx e negli altri quartieri di NYC. Quella sera, però, nacque compiutamente l’embrione della consapevolezza che una nuova ‘cultura’ stava nascendo, che aveva le sue radici nella strada, un po’ nella protesta e nella rabbia e un po’ nella festa e nella spensieratezza. Il miglior hip -hop in fondo questo è rimasto; un genere musicale che non ha bisogno di portarsi dietro strumenti, finché gli basteranno i pugni in tasca di qualche ragazzo o ragazza che sappia battere il ritmo bum/cha e abbia delle cose da dire in rima.

…Seguirà post sull’hip hop bolognese, abbiate fede…