Posts Tagged ‘cultura&politica’

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Calpestando l’oblio

4 febbraio 2011

Riceviamo e volentieri pubblichiamo:

Calpestare l’oblio. Progetto culturale

Nato come opera poetica di impegno civile nel novembre 2009, capace di attirare l’attenzione non solo degli addetti ai lavori ma dei maggiori media nazionali, dall’8 gennaio 2010 “Calpestare l’oblio” si è auto-organizzato in un vasto movimento spontaneo di rivolta generale contro quello che i promotori hanno definito il “trentennio dell’interruzione culturale” e della “rimozione della coscienza critica”. Il progetto, coordinato da Davide Nota (rivista La Gru), Fabio Orecchini (rivista Argo e Beba Do Samba) e Valerio Cuccaroni (rivista Argo), ha prodotto finora 2 e-book, 2 edizioni cartacee, decine di incontri e 2 assemblee nazionali, 1 piattaforma programmatica, […] assieme all’elenco di tutti coloro – poeti, giornalisti, associazioni, sindacati, partiti, istituzioni – che hanno aderito al progetto finora.

Insomma, alla base c’è un’analisi: che il problema, il caso-Italia, sia anche o soprattutto un problema culturale. L’idea è rimettere in moto le energie critiche nei campi della cultura a partire da chi opera nel campo della poesia. Così dall’incontro/assemblea a Roma dell’8 gennaio scorso è nata una piattaforma programmatica:

unire le lotte di studenti, ricercatori, precari della scuola, operatori del mondo dello spettacolo, giornalisti, metalmeccanici; promuovere un’arte “contaminata”, ovvero un’arte che non solo racconti il presente, ma cammini nel presente e lotti per un futuro migliore; istituire un osservatorio sulla questione culturale italiana […]

E molto altro. Il resto lo trovate a questo indirizzo sul sito della rivista Argo. Vi troverete anche i link ai due e-book di poesie, la lista completa dei soggetti che compongono il progetto, la bozza di Osservatorio.Quel che vogliamo segnalare è che il prossimo incontro della rete è a

Bologna, Venerdì 11 febbraio 2011 dalle ore 18 alle 24, allo spazio occupato (…) Bartleby

Presente anche il nostro Massimiliano Chiamenti (sì, lui). Aggiornamenti a breve sul sito del Bartleby.

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Wicenza!

16 gennaio 2011
La sera di oggi, domenica 16 gennaio, si svolge a Vicenza una fiaccolata molto particolare.
Chi ricorda il movimento No Dal Molin? Seppure la sua visibilità nei media mainstream nazionali sia scemata parecchio rispetto agli inizi, esso va avanti e si confronta con le nuove sfide causate dall’inizio dei lavori di allargamento della base americana.
Conviene fare un po’ di storia: siamo a fine 2006 e dall’estero l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi dichiara candidamente che l’allargamento della base NATO situata alla periferia (ma neanche poi tanto, a ben vedere) del capolugo berico sarebbe cominciato a breve, che non era in discussione e che il piano dei lavori era quello presentato dagli USA stessi, cioè un raddoppio della superficie. Detto questo, molta gente, a Vicenza e no, si incazzò alquanto e per delle buone ragioni: a partire dall’articolo 11 della Costituzione, se volessimo fare i raffinati, visto che i generali della base alla domanda “ma da qui partiranno anche i bombardieri per l’Afghanistan?” risposero “FUCK YEAH!”; l’opportunità di costruire una *@%%# di base militare enorme a pochi chilometri dal centro città (e da una città con un centro storico -tipo- patrimonio Unesco); nessuna garanzia offerta dal piano sulla tutela dell’acquifero sottostante Vicenza, che anzi studi indipendenti dicevano a serio rischio di compromissione; nessuna chiarezza sul tipo di armamenti in dotazione agli aerei della base (per dire: petardi? missili di precisione? “bombe intelligenti”? Uranio impoverito? Così, per sapere).
Il governo fa spallucce, dice “la base si farà, ma sul tema della servitù militari sul suolo italiano apriremo una conferenza internazionale”. Il problema è che questo ordine di risposta manca completamente il punto: a Vicenza si parla di una gigantesca questione insieme ambientale, di visione dei rapporti internazionali e democratica -dato che tutto ciò passa bellamente sopra la testa dei cittadini che dovranno bere l’acqua e respirare l’aria di quei luoghi. Si aggiunga che l’allora giunta Hullweck, di centrodestra, era favorevole alla base (“gli americani ci portano il lavoro!”) e contraria a riconoscere la validità di un eventuale referendum consultivo che permettesse di sondare le opinioni della popolazione.
Che succede dunque? Succede che il 16 gennaio 2007 si svolge a Vicenza una riuscita e partecipata manifestazione contro la base: è l’inizio di un movimento più ampio e allargato, con le radici in città ma lo sguardo rivolto alle dinamiche del mondo esterno. E allora ci si dice, “rilanciamo”: manifestazione nazionale per sabato 17 febbraio 2007. I giornali e il governo nazionali impazziscono (sul serio!) e agitano per settimane lo spettro di Brigate Rosse (va detto che erano stati fermati poco prima dei sedicenti neobrigatisti), violenze, black bloc, facinorosi, infiltrati. Viene da dire che per fortuna 4 anni non sono passati invano e oggi il clima intorno alle manifestazioni è tutt’altro.
Il risultato è questo:

200.000 e più persone che sfilano pacificamente, vicentini di tutte le età insieme a manifestanti venuti da tutte le parti d’Italia, dalla Val Susa a Reggio Calabria.

Adesso facciamo un cosa alla Animal House: cos’è successo in questi 4 anni? In questi anni sono successe molte cose: il presidio permanente No Dal Molin è diventato una realtà organizzata e radicata in città ed ha avuto modo negli anni di organizzare molte iniziative, manifestazioni, festival… L’annunciata conferenza sulle servitù militari non vi fu mai, visto che il governo Prodi cadde una prima volta (per finta) di lì a poco proprio sulla politica estera. Paolo Costa, il commissario nominato dal governo per sovrintendere alla costruzione e della base per correggerne eventuali difetti, storture, mancanza di valutazioni preventive etc. ha perlopiù fatto sì che i lavori potessero proseguire in spregio alle cose appena citate, compresa -tipo- la Valutazione d’Impatto Ambientale. Una giunta di centrosinistra, meno sdraiata sul progetto della base, ha preso il posto della precedente e vi siedono anche consiglieri della lista No Dal Molin.Il progetto presentato all’inizio dalle forze NATO è cambiato e ora si estende su un’area più piccola, mentre sul resto dell’area Dal Molin sorgerà il Parco della Pace. I lavori alla base sono partiti puntuali, e il cantiere ora avanza a tempo di record.Dopo le recenti alluvioni nel vicentino, c’è anche chi s’è chiesto se fosse poi ‘sta grande idea costruire una base militare lì: nessuna risposta da parte dei soliti noti. Così qualcuno più malizioso s’è chiesto se per caso non possa esserci un legame tra una devastazione dovuta al cedimento (tuttora non chiarito fino in fondo) di alcuni argini e la cementificazione di un’area enorme: malizia, ovviamente -ma anche in questo caso nessuna risposta. Chi ne volesse sapere di più trova un appello qui.

La bella intervista di Orsola Casagrande a Olol Jackson (uno dei portavoce del movimento) la trovate qui.

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Illusionismi.

11 gennaio 2011

A me comprare un quotidiano, in generale, piace. Mi sono chiesto per molto tempo come facessero quelli che, nell‘emeroteca di Sala Borsa, si mettono a leggere molti giornali anche di orientamenti politici diversissimi, prima di darmi una risposta: il segreto è che sono (prevalentemente) anziani e hanno più tempo da spendere per formarsi un’opinione sui fatti che accadono: è lo stesso motivo per cui io, per esempio, cerco sempre di ascoltare “Stampa e Regime“, la rassegna stampa mattutina di Radio Radicale (curata da Massimo Bordin).

Io che sono giovine e quel tempo ancora non l’ho -e poi lo ammetto, l’idea di maneggiare Libero o La Padania mi fa anche un certo ribrezzo- compro un solo giornale, che è il manifesto. Se però trovo in giro qualche cos’altro, non mi dispiace di certo: qualche pagina di Repubblica o dell’Unità si legge sempre volentieri. Negli ultimi tempi, invece, non riesco ad avere lo stesso atteggiamento nei confronti del Corriere della Sera. Lo dico perché sono giunto alla conclusione che dover leggere gli editoriali di Panebianco, Ostellino o Galli della Loggia non sia ancora da preferirsi a una ferita da arma da fuoco ad un piede, ma siamo quasi lì.

Tutto questo per dire che, non leggendo il Corriere, mi ero perso questo lungo articolo di Mario-Monti-contro-tutti e che ho recuperato solo grazie a questo blog che, simpaticamente, ne offre anche una traduzione spiccia e comprensibile.

Noi invece abbiamo fatto di più: siamo miracolosamente riusciti ad entrare in possesso della prima versione della parte incriminata e che riportiamo dopo la versione emendata e poi uscita sul quotidiano di via Solferino. Questa recita così (grassetti nostri):

Esistono in Italia due illusionismi. Essi sono riconducibili, sia detto senza alcuna ironia, alla dottrina di Karl Marx e alla personalità di Silvio Berlusconi.
Marx ha alimentato a lungo un sogno sul futuro: la classe operaia un giorno avrebbe vinto il capitalismo e avrebbe governato come classe egemone in un sistema più equo. Fallito quel sogno, in quasi tutti i Paesi le rappresentanze della classe operaia e delle nuove fasce deboli hanno modificato le loro azioni e rivendicazioni, ispirandole all’esigenza di tutelare al meglio e pragmaticamente tali interessi nel contesto di economie di mercato che devono affermarsi nella competizione internazionale. Solo così possono creare lo spazio per dosi maggiori di socialità (adeguati servizi sociali, sistema fiscale redistributivo, ecc.) che, per essere effettivamente conquistate, richiederanno appunto quelle azioni e rivendicazioni.
In Italia, data la maggiore influenza avuta dalla cultura marxista e la quasi assenza di una cultura liberale, si è protratta più a lungo, in una parte dell’ opinione pubblica e della classe dirigente, la priorità data alla rivendicazione ideale, su basi di istanze etiche, rispetto alla rivendicazione pragmatica, fondata su ciò che può essere ottenuto, anche con durezza ma in modo sostenibile, cioè nel vincolo della competitività.
Questo arcaico stile di rivendicazione, che finisce spesso per fare il danno degli interessi tutelati, è un grosso ostacolo alle riforme. Ma può venire superato. L’abbiamo visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili.

Questo per la parte che ci interessa. La prima stesura recitava invece così:

Che roba contessa, all’industria di Aldo

han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti;

volevano avere i salari aumentati,

gridavano, pensi!, di esser sfruttati.

E quando è arrivata la polizia

quei pazzi straccioni han gridato più forte,

di sangue han sporcato il cortile e le porte,

chissà quanto tempo ci vorrà per pulire…”.

Come continuava lo ricordate tutti, spero.

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Se tu vuoi costruire un partito

15 novembre 2010

Il post singolo (non la pagina) di questo blog che ha ricevuto e continua a ricevere più visite è questo.

Il tenutario del blog se ne domandava la ragione, finché il vicedirettore dell’Idioteca non lo ha illuminato: proprio quel passo lì, infatti, ha ricevuto una citazione “politica” prima da lui e poi nientepopodimeno che dall’uomo che tiene in mano le sorti del governo in un discorso molto seguito.

Noi saremo cheap, ma loro mooolto di più.

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Banksy, un artista dai muri ai musei (passando per i Simpsons)

15 ottobre 2010

Parlando con un’amica, càpito a dirle: “Hai visto l’intro dei Simpson fatta da Banksy?” Lei: “Sì, ho capito quale, ma non so chi sia, lui”.

Ecco, in considerazione del fatto che là fuori possano esserci altre persone nella stessa miserevole condizione, compiliamo un post informativo.

Banksy (qui la voce wiki) è il nome d’arte di uno dei più noti artisti di strada (ma non solo) in Europa e nel mondo: di lui si conosce pochissimo, dato che ha sempre lavorato nel più totale anonimato, fattore, questo, che ha alimentato la sua notorietà nonché il suo alone di mistero (un po’ come per Blu).

Parrebbe essere nato nel 1973 (o ’74, o ’75), a Bristol, cittadina che lo ha comunque visto crescere e mettere in campo le sue prime esperienze artistiche con i collettivi graffitari della città britannica (tra cui si annoverano autentiche leggende) segnalandosi per le sue creazioni surreali.

A system error has occurred

Si diverte a spiazzare, a mettere sotto gli occhi di tutti graffiti che hanno come tema la guerra, l’alienazione, lo sfruttamento.

La tecnica utilizzata è soprattutto quella dello stencil, utilizzata per creare effetti di trompe l’oeil, oppure di messa in discussione di un certo tipo di arte istituzionalizzata. In passato è riuscito anche ad appendere, senza venire notato, alcune sue opere in alcuni musei europei e a praticare altre simili forme di guerrilla art.

In un libro-catalogo di una mostra del 2002, Bansky dice

Alcune persone diventano dei poliziotti perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore. Alcune diventano vandali perché vogliono far diventare il mondo un posto migliore da vedere.

Diciamocelo: magari con gli   anni è diventato un po’ più     paraculo, ma le sue opere       continuano molto spesso a     dimostrare inventiva e             spirito d’immaginazione.

Man mano che la sua fama       cresceva, alcune sue opere     sono diventate una sorta di   patrimonio culturale delle     città sui cui muri sono realizzate, altre sono arrivate a quotazioni di tutto rispetto, ma Banksy non ha dimenticato l’aspetto ‘sociale’ che ha sempre rivendicato: per dire, è stato tra gli artisti che ha situazionisticamente dipinto il muro Israele-Palestina con cose di questo tenore, per dire.

Come dire, mica bruscolini. In altre parole, possiamo dire che Banksy si/ci pone nelle sue opere il problema del superamento dello ‘stato di cose presenti’ (do you remember?), che esso riguardi la guerra, la condizione dell’arte, i maltrattamenti sugli animali o lo strapotere  dell’establishment; prima di tutto c’è il bisogno di pulire il proprio sguardo, farlo uscire dagli spazi urbani squallidi in cui è costretto.

L’immaginario pop non è nemico di questo processo, viene anzi saccheggiato a piene mani da Banksy, il quale a tal proposito la pensa così:

Noi non possiamo fare niente per cambiare il mondo finché il capitalismo non crollerà. Nel frattempo, dovremmo tutti andare a fare shopping per consolarci.

Tra l’altro, quest’anno è uscito -dopo essere stato presentato al Sundance festival- il film mockumentary girato da Bansky, Exit through the gift shop, a sua volta narrante storie di graffiti e graffitari. Eccone il trailer:

Non sappiamo se verrà mai distribuito in Italia, però non vogliamo con questo incitarvi a scaricarlo gratuitamente dal web, lungi da noi.

Insomma, Banksy è diventato un fenomeno (ha un’agenzia tutta sua che gestisce la vendita delle sue opere), ha avuto mostre personali importanti come quella dell’anno scorso a Bristol, tant’è che si parla di ‘Banksy effect’ per definire una rinata attenzione della critica per l’arte di strada. Piaccia o non piaccia, qui c’è un’ultima infornata di roba, con la gallery.

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Speriamo che adesso abbiate qualche strumento in più per capire cosa c’è dietro alla sigla dei Simpson con cui abbiamo aperto il post.

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“Dateve ‘na mossa” sto par de *@££&, signora

8 ottobre 2010

Io, per esempio, a questa qui (che in soldoni se la prende con questo -che sono poi 1 e 2) risponderei così. Ma con più insulti, forse.

P.S. Poteva non mangiarci sopra Repubblica.it? Come poteva?

P.P.S. Almeno su una cosa, però, ha tutta la ragione del mondo: “Lasciate le pigrizie catalane di Barcellona […]”. Ecchecca220.

Che ne pensano di tutto il tema i miei 24 lettori? La moderazione si riserva il diritto di aggiungere insulti casuali alla Palombelli nei vostri commenti.

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“Il ponte”, di Vitaliano Trevisan

7 settembre 2010

Tutto quel parlare di libertà e di diritti, quell’incessante cicaleccio che dura ancora oggi a proposito del Sessantotto e della libertà che avrebbe portato, e che continuerebbe a irradiare, che a guardar bene, si è tradotta in libertà di comprare e consumare, libertà e diritto entrambi apparenti s’intende, perché in realtà non c’è libertà né diritto, ma bensì il dovere di comprare e di consumare, e si compra e si consuma tutto, beni materiali e beni immateriali, valori reali e valori assolutamente irreali, mentre la cosa straordinaria non è tanto che si venda qualcosa che non c’è, né che si compri questo qualcosa che non c’è; ciò che davvero mi stupisce è che questo qualcosa che non c’è, pur non essendoci, si consuma e crea un vuoto; e siccome esiste solo in quanto pensiero, ovvero nella testa, esso si consuma nella testa e determina un vuoto nella testa, che, per inciso, è sempre e comunque una testa di mercato, visto che non c’è più nemmeno la possibilità di un pensiero alternativo, e dunque non c’è più pensiero. Se un albero si giudica dai frutti, e non dalle intenzioni, l’albero del Sessantotto lo si potrebbe benissimo usare come legna da ardere.

V.T. da Il ponte, Torino, Einaudi, 2007 (costando 13 euri)

Appena incontro Vitaliano Trevisan gli spacco il muso: un buon destro con rotazione di tallone-bacino-torso-spalle che si sgancia tipo fionda e gli arriva come una transiberiana giusto sull’arco sopraccigliare, o magari – perché no – in pieno naso. Il motivo (ammettendo che debba esserci motivo per una sana sabongia) è assai semplice: non si può condensare tanta verità – tanta dolorosa verità – in sole centocinquantatré pagine. È un gesto irresponsabile, folle, compiuto in totale spregio della pubblica incolumità (se non fossimo in Italia).

Il ponte – opera che segue il magistrale esordio de I quindicimila passi (che col senno di poi si può definire “embrionale”) è – come ricorda nel sottotitolo l’autore – la narrazione, la fissazione, l’elaborazione di un crollo che investe ogni elemento, ogni costruzione del protagonista Thomas. L’incipit è la morte e la chiusa è un’altra morte, anche se più sfumata, liberatoria (in realtà la polisemia ascendente-discendente con la quale Trevisan conclude l’opera è, oltre alla prova di un estro evidente, il segno tangibile di un discreta furbizia tecnica). Racchiusa fra i due “decessi”, si svolge una storia chiaramente banale, monotona (le ripetizioni sono il grande trucco ad effetto di Trevisan, che le utilizza per costernare il lettore, indurlo alla frenesia divoratrice, colpirlo con una sofferente noia che erode gradualmente ogni mattone del ponte), una storia dicevamo, che è analizzata in tutte le sue possibilità, quelle patologiche ed ossessive, quelle concrete. C’è crudeltà nella scientifica serietà con cui l’autore dilania la stabilità cerebrale di Thomas, fino a concedergli la possibilità di trovare l’equilibrio solo nell’annullamento completo del brusio circostante, composto da madri anaffettive e padri irretiti, percezioni di responsabilità tremende, disagi, afasie, ricerche di bandoli introvabili.

Così scorre un libro che farete fatica a definire romanzo, narrativa classica. Il ponte ricorda per certi versi il romanzo civile e per altri il pamphlet, vedrete al suo interno alcuni snodi classici del romanzo di formazione ma sarete spiazzati dall’ambiguità dell’intreccio, fatto di approdi assai nebbiosi, alla Kafka. E poi le contraddizioni, che sono una sfaccettatura delle ripetizioni: Trevisan dà voce alla realtà, che è multiforme e quindi contraddittoria, la verità non è mai una sola, cambiano le condizioni e già vedo il panorama tinto di un altro colore.

Infine la scrittura, personale, vera: lunghe subordinate in controtendenza con la “scuola” in decadenza della narrativa italiana, punteggiatura a tratti sovrabbondante, che rende la lettura sincopata, ansiosa. In una parola Trevisan riesce – più o meno volutamente – a congiungere al massimo significato e significante, senso ed oggetto linguistico, messaggio e strumento di lavoro.

Per la ciclicità che esprime la storia, Il ponte potrebbe essere paragonato – con tutto il dovuto rispetto – a Proust. Anche nel libro di Trevisan infatti è impossibile scappare dalle pagine precedenti, anche qui tutto si ripete ma mai in maniera identica, anche qui la memoria – quella vera – è la comunicazione, il dialogo con il nostro passato e non – quella falsa – che cristallizza gli avvenimenti fino a farli apparire distorti per il vizio artificiale della macchina fotografica.

Un buon pezzo di letteratura italiana, che può piacere o non piacere, ma al quale va tributato un plauso se non altro per la novità fresca di una scrittura complessa e colta, che fissa una “piccola storia ignobile” come ignobile può essere solo la vita realmente vissuta. Un libro da salvare nella marea indistinta del mercato editoriale italiano, che arranca quasi solo producendo “casi letterari” capaci di vincere premi e sparire come meteore, oppure di librucci da boom commerciale a suon di sponsorizzazioni televisive. Con Trevisan si nota un’autenticità di fondo della scrittura, della storia dell’autore, al quale affido la conclusione di queste righe: Siamo gettati nel mondo per ragioni che non ci riguardano e dobbiamo arrangiarci, la verità è questa.

(Mirko Roglia)

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Kebabträume in der Türmestadt

31 agosto 2010

Ove si parla di carne speziata, questione curda, ordinanze xenofobe, turchi in Germania e post-punk.

Qualche tempo fa, in una kebabberia di via delle Moline, chi scrive ha assistito alla seguente scena:

entra un avventore, si guarda intorno, chiede al gestore di Saleem (? così mi parve di capire), visto che questi gli ha dato un appuntamento.

-No, non c’è.

-Però lui aveva detto che venivo alle 2, che lui c’era.

-Io non so niente, non mi ha detto niente, puoi tornare dopo.

-Ma Saleem non c’è? Quando viene lui?

-Non lo so, non ci siamo visti, forse lo sa l’altro ragazzo. Vuoi che lo chiamo?

-Sì, perché lui mi aveva detto alle 2.

A questo punto l’avventore s’illumina e chiede:

-Turco?

-No, curdo.

-Saleem parla turco. Parli turco?

-(seccato) No.

-Ma come non parli turco, Saleem parla turco. (si esprime in una lingua incomprensibile al redattore)

-No, ho detto te prima che sono curdo. Saleem è turco, parla turco.

-Ma non c’è Saleem? Lui parla turco, ha detto ci vediamo alle 2, io non so quando arriva.

-(visibilmente stizzito) Io non so niente. Tornare dopo, chiedi dopo.

-Va bene (capisce l’antifona e se ne va).

Dissapori etnici davanti al Doner Kebab, il quale in effetti, nella versione che conosciamo col super-girarrosto, è un piatto turco.

La parola Kebab (o Kebap, in turco) però in arabo significa semplicemente “carne arrostita” e ne esistono perciò svariate versioni  dall’India e al Pakistan al bacino del Mediterraneo fino alla Grecia, che è anche l’arco che percorrono con i mezzi più svariati i migranti che arrivano sulle coste dell’Adriatico per cercare fortuna (ed è noto quanto spesso questi viaggi, soprattutto per kurdi ed iracheni, si fermino nei porti della Grecia che ha una legislazione a dir poco restrittiva sul diritto di asilo), e non è detto che Venezia o Ancona siano terra ospitale. Qualcuno scriveva che la parola fortuna in curdo non esiste.

Il cibo, invece, non conosce frontiere, le attraversa tutte e le ibrida in continuazione. Certo, la diffusione in Europa del kebab è dovuta all’immigrazione turca e dai paesi arabi: la sua presa, soprattutto tra gli squattrinati universitari, è soprattutto dovuta ai prezzi modici rapportati all’apporto calorico. Per questo motivo, nel Belpaese le solite giunte forzaleghiste del cazzo hanno in più di un luogo sollevato dei problemi (sanciti dall’immancabile ordinanza) all’aumento dei kebabbari: vedi il caso di Lucca, la proposta a Firenze, il centro di Roma, l’esempio della ‘capitale morale’ Milano, in Liguria ad Albenga, quei posti in Lombardia dai nomi ridicoli e oscuri che dovrebbero essere cancellati dalla faccia della terra, nonché Bergamo. Chi volesse rendersi conto dell’entità numerica di provvedimenti simili nella sola Lombardia, vada pure QUI. Così, tanto per dare un’idea. Bella merda.

Si diceva però dei cibi che migrano e si ibridano insieme con chi li prepara. Il fatto è che il Kebap ha viaggiato insieme all’immigrazione turca in Germania, lì ha messo radici (anche industriali) e da lì è rimbalzato nelle città di mezza Europa. Citiamo da questo post in memoria dell’inventore del super girarrosto che ha reso possibile la vita di chi frequenta il 36:

Nel 1971, un turco immigrato in Germania dà una mano nel ristorante di suo zio, a Berlino. Gli viene allora l’illuminazione che cambierà le abitudini alimentari dei festaroli: mettere delle fettine di carne di montone nella pita, il pane rotondo tradizionale del Mediterraneo orientale. Vi si aggiungono pomodori, cipolle e la famosa salsa bianca, l’altra invenzione di un Mehmet Aygun decisamente ispirato.

“Doner kebab” significa per l’appunto, kebab rotante. Ma veniamo ora alla musica. Il titolo del post è infatti una citazione da “Kebabträume” dei Deutsche-Amerikanische Freundschaft, ovvero i DAF, gruppo di culto della New wave tedesca anni ’80, dediti all’elettronica, al post-punk e alla dissacrazione di qualunque riferimento ad un immaginario politico (è loro il pezzo ‘Der Mussolini‘). Negli anni del montare della protesta dell’Ovest contro l’immigrazione turca ‘senza freni’ che metteva a repentaglio ‘l’identità tedesca’ (non sentite un brivido?), i Daf sfornano un pezzo elettronico che ribalta il segno delle contestazioni e in cui si canta “Wir sind die Türken von Morgen” (=noi siamo i turchi di domani). In effetti oggi Berlino è uno dei posti dove il kebab è ormai tipico (consigli sul kebab berlinese qui, chi capisse il tedesco troverà qui un dibattito interessante), e la famosa serie tradotta come Kebab for breakfast in originale si chiama in effetti “Türkisch für Anfänger” (=turco per principianti).

Il testo per intero recita:

Kebab Träume in der Mauer-Stadt (sogni di Kebab nella città del muro)
Türkkültür hinter Stacheldraht (cultura turca sotto il filo spinato)
Neue Izmir ist in der DDR (la nuova Smirne è nella RDT)
Atatürk der neue Herr (Atatürk il nuovo capo/signore)

Milliyet für die Sowjetunion (“Nazionalità”-un giornale turco- per l’Unione Sovietica)
In jeder Imbißstube ein Spion (in ogni tavola calda una spia)
Im ZK Agent aus Türkei (nel Comitato centrale un agente dalla Turchia)
Deutschland, Deutschland, alles ist vorbei! (Germania, Germania, tutto è spacciato)

Wir sind die Türken von Morgen (noi siamo i turchi di domani)
Wir sind die Türken von Morgen

Ed eccovi qua una bella esibizione live:

E siccome conosco un po’ i gusti della redazione, informo che l’hanno fatta in versione punkettona anche i CCCP, quando ancora si chiamavano Mithropank

  • La consueta segnalazione bibliofila: su curdi e dintorni obbligatorio il bellissimo fumetto di Marina Girardi (questo il suo blog), “Kurden People”, Bologna, Comma 22, 2009. Sui deliri di xenofoba onnipotenza legaiola, Giuseppe Civati, “Regione straniera“, Milano, Melampo, 2009 (anche in questo caso l’ottimo blog). Per un esempio positivo, Enzo Laforgia – Giovanna Ferloni, “Salamelle & kebab : incontri di culture in una provincia lombarda”, Varese : Arterigere, 2008.
  • Più il film di Fatih Akin del 2004, “Kebab connection“.

Ne approfittiamo per lanciare… IL SECONDO CONCORSO IDIOTECARO! ovvero:

qual è il kebabbaro più buono di Bologna?

Partecipate numerosi con i commenti (e condividete su FB)!

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Kierkegaard sui politici e i docenti

8 agosto 2010

Prima di andare a dormire, un paio di estratti dal “Diario” di Søren Aabye Kierkegaard (quel che leggevo a 17 anni, discorso già fatto):

i nostri politicanti sono come i pronomi reciproci greci che mancano del nominativo, del singolare, e di tutti i casi del soggetto: non si possono pensare che al plurale o nei casi obliqui.

(frammento 471 della numerazione Fabro dell’editio maior per Morcelliana del 1962-3, poi variamente aumentata)

Siccome poi molti di voi si muovono in ambito universitario, è interessante leggere che pensava dei docenti a lui contemporanei:

L’uomo comune io l’amo, i docenti mi fanno ribrezzo.

E’ stata proprio la categoria dei “docenti” che ha demoralizzato l’umanità. Se si lasciasse il mondo com’è in realtà, quei pochi che veramente sono al servizio dell’idea o che stanno ancora più in alto al servizio di Dio – e poi il popolo: tutto andrebbe per il meglio.

Ma c’è quest’infamia che tra gli eminenti e il popolo si intrufolano queste canaglie, questa masnada di briganti, che sotto l’apparenza di servie anch’essi all’idea, tradiscono i suoi veri servitori e confondono la testa al popolo, e tutto per spillare miserabili vantaggi terrestri.

Se non ci fosse l’inferno, bisognerebbe crearne uno apposta per i docenti, il cui crimine è precisamente anche di tal fatta che non si può facilmente punire in questo mondo.

(frammento 3059)

Amen (chissà che scriverebbe se avesse un blog al giorno d’oggi, il Kierkegaard -citazione da qui). Vi risparmio la violenza verbale che esercitanei confronti dei giornalisti in svariati luoghi; se v’interessa, l’acquisto è sempre consigliato – l’edizione ridotta del Diario nella BUR costa 9,50 euri. No?

Anche qui, bonus audiovideo (di carattere scemo, a ‘sto giro):

  • S. A. Kierkegaard, “Diario”, a cura di C. Fabro, Milano, Rizzoli 2000
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“Bologna è una vecchia signora, dai fianchi un po’ molli”

4 giugno 2010

Siccome quegli stronzi di WordPress vogliono QUATTRINI per fare caricare su un blog direttamente un file audio o video, incolliamo direttamente il precario collegamento dal TuTubo.

Più che altro, mi piacerebbe avviare una discussione intorno  al tema “Bologna/non Bologna”. Visto che non siamo più nel 1981 (anno in cui uscì l’album “Metropolis”), sono ancora attuali le parole del Guccio? Oppure, senza cadere nella retorica del ‘degrado’ (e si stava meglio quando la sera si poteva uscire e passeggiare e non c’era tutta questa sporcizia e questi immigrati e gli studenti etc etc), Bologna è scaduta a livello di politica culturale e scena musical-letteraria-universitaria, nella totale insipienza dei suoi passatisti abitanti?

Personale opinione? Bologna come la Pankow d’Italia [EDIT: mi è stato fatto notare che bisognerebbe segnalare ai più che Pankow è il quartiere della Berlino Est dove risiedevano molti dei funzionari di partito della DDR. Eccheccavolo, i CCCP non vi hanno insegnato niente?]. Indipendentemente dalla bontà del ‘modello-Bologna’, se mai è esistito (su questo risponderei di sì, e che ha avuto un senso fino al 77), ha funzionato finché è durato il Partito. Da allora, tentativi più o meno lobbistici di rilancio e convulsioni politico-culturali. Magari, chi è fuori sede la vede diversamente… Sono aperti i commenti!!

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“Via del Pratello, 41 -c’è la polizia con le pistole e i giubbotti antiproiettile”

29 Maggio 2010

Dovessi dire come vorrei che finisse l’Idioteca, risponderei senz’altro:

Così \”Radio Alice, irruzione della polizia\” [occhio che la registrazione parte al min. 00:19]

certo, tutto considerato al mattino era appena successo questo:

(dài, che lo sapete cos’è… via Mascarella, i segni degli spari che uccisero Francesco Lorusso -la lapide è lì di fianco. Questo sempre perché, in Italia, se sei un poliziotto e vuoi essere sicuro di ammazzare qualcuno, devi sparare in aria. Sempre.)

Quindi sì, da molti punti di vista erano altri tempi. Però, in tempi di disimpegno e precarietà, una consolazione. Ricordate, ai tempi dell’Onda (…), una certa intervista?

Quali fatti dovrebbero seguire? «Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interno».

Ossia? «In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito…».

Gli universitari, invece? «Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città».

Dopo di che? «Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri».

Nel senso che… «Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano».

Anche i docenti? «Soprattutto i docenti».

Presidente, il suo è un paradosso, no? «Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che indottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!».

E lei si rende conto di quel che direbbero in Europa dopo una cura del genere? «In Italia torna il fascismo», direbbero. «Balle, questa è la ricetta democratica: spegnere la fiamma prima che divampi l’incendio».

Per cui sì, consoliamoci: KoSSiga, quello, vuole menarci anche a noi (vedi commento al post).

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E con questo, a occhio, finiamo il riciclo. Nuove idee, please.

28 Maggio 2010

(aggiusta il microfono) BZZZ -Si sente?
(Applausi dalla sala)
-Care compagne e cari compagni… (continuano gli applausi) grazie.
Care compagne e cari compagni, è con fermo proposito che mi presento
davanti a quest’assemblea. E, lasciatemelo dire, non sono del tutto
d’accordo con le conclusioni cui è giunto il compagno XXXXX poco prima
di me. Non si procedette noi alla gloriosa fondazione dell’Idioteca
per scavare un cuneo di socialità nel grigiore intellettuale di questa
città? E non si volle noi ricominciare dalle strade e dalle piazze
così spesso negate, senza chiedere il permesso per liberare i nostri
copri e i nostri immaginari? (dal fondo della sala: -Bene! -Bravo!)
Per comiciare da noi stessi, da tutte e tutti, a sognare e a costruire
dal basso una zona franca in questa città? (-è vero!) Allora, care
compagne e cari compagni, è d’uopo riannodare quei fili della memoria
che ci permettono di riflettere su noi stessi, di avere un punto
d’appoggio a partire dal quale lottare per una visione radicalmente
altra di questa società capitalistica? Sento dire d’ogni dove:
movimento, movimento! Ma, non è altresì vero che dobbiamo partire,
oggi più che mai, da un’analisi (dalla sala brusii, contestazioni:
-non è vero! Movimento!)… Compagni, vi prego. Un’analisi, dicevo, di
quello che è stato il movimento “storico” in questa città, di cui
siamo -piaccia o non piaccia- successori, ed interrogarci, anche, su
quelle che qualcuno ha chiamato le ragioni storiche di una sconfitta?
Come si fa a recuperare la fantasia del sogno se non innerviamo
profondamente la realtà e allo stesso tempo crediamo di essere i primi
a sognare? Se non sappiamo farlo insieme con qualcun altro, dandoci,
dando prima di tutto a noi stessi, gli strumenti culturali e sociali
perché l’Idioteca possa camminare da adulta con le proprie gambe
(-Bravo! -è così!)? Io intendo dunque, con gli altri compagni della
mozione, il lavoro culturale e letterario -che pure non dobbiamo
dimenticare nel suo momento “proprio”- come un tutt’uno con quello
sociale e politico che, ancora una volta, ci permetterà di parlare con
la voce forte della contestazione e del’immaginazione del nuovo a
questa città. Grazie. (convinti applausi)

Ok, tutta la parte prima non ha senso se non come divertissement
letterario-politico… Quel che volevo farvi sapere è che, se qualcuno
non l’avesse mai visto, è scaricabile gratuitamente in rete (e vai di
copyleft!) “Il trasloco”, documentario di Renato de Maria (-CHII?
-Quello di Paz… -AAAH…!) sul trasloco di un appartamento storico
del 77 bolognese con Bifo come voce narrante e un sacco di passaggi su
RadioAlice, Il Male, il femminismo e il movimento tutto -dura
un’oretta, guardatelo ORA:

http://it.wikipedia.org/wiki/Il_trasloco (per informazioni)

http://www.ngvision.org/mediabase/212 (per scaricarlo, c’è il link in
basso sia dal mulo che dal sito proprio… buona visione!)